L’annata sta terminando e qualcuno ha qualche sassolone nella scarpa da togliere assolutamente per tempo. E’ il caso di Scuba, che questa notte ha deciso di scrivere un lunghissimo post per attaccare l’attuale scena techno e nello specifico un’industria che sta perdendo la linfa vitale e creativa delle nuove leve (sopratutto producers) e, a suo dire, tenendo il suo monopolio su una cerchia stretta di attori.
Il tutto parte da Richie Hawtin e il suo messaggio dedicato alla chiusura del progetto Aslide (“una fetta”), creato dal producer DVS1, che nel suo intento avrebbe dovuto dividere correttamente i diritti d’autore per i produttori grazie a donazioni dei dj che suonano le tracce nei dj set ripartite da un software di intelligenza artificiale che attraverso le tracklist è in grado di determinare il giusto compenso finale. Dopo meno di 4 anni il progetto si è visto obbligato a chiudere per la poca partecipazione dei djs.
Da questo punto inizia il “rant” di Scuba:
Che ci facciamo ancora qui?
Le sporadiche riflessioni di Richie Hawtin su questioni attuali attirano solitamente molta attenzione. Quella che mi ritorna spesso in mente è in un post su Facebook di quasi 20 anni fa, in cui prendeva in giro un dj con una borsa di dischi. A posteriori era chiaramente un commento ironico, ma all’epoca suscitò l’indignazione immaginabile da parte delle frange più puriste dei “vinilofili”.
Non che il purismo del vinile o della techno abbia mai davvero preso il sopravvento. Piuttosto, il potere dato da questa narrazione acquisì con il tempo una propria forza. Indipendentemente da quanto assurdi potessero essere alcuni aspetti di quella narrazione, metterla in discussione significava posizionarsi “dall’altro lato”.
In una versione rivisitata di queste riflessioni, è arrivato tempo fa un video strappalacrime e già divenuto leggendario sulla chiusura della piattaforma Aslice, Richie ha parlato di comunità e del fantasma del PLUR (Peace, Love, Unity, Respect), che perseguita la scena dance sin dalla seconda Summer Of Love, di quasi 40 anni fa. Nell’editoriale pubblicato da Resident Advisor sullo stesso tema, il sottotitolo lamentava “l’attivismo vuoto della musica dance”.
Ed è tutto vero: l’ideologia utopica del rave è sempre stata solo una parte della storia. Il thatcherismo e lo spirito imprenditoriale dei “furbi” erano altrettanto importanti quanto gli echi del 1968 nella rivoluzione dell’acid house.
Ma, mentre nel 1991 c’era equilibrio, la verità è che oggi la “comunità” praticamente non esiste più.
E perché dovrebbe? Da quasi un decennio la narrazione predominante è che la cultura rave, nella sua forma originale, fosse una frode: una generazione rubata, dominata dai vincitori che depredavano senza pietà chi era diverso da loro, escludendo chi non rientrava nei loro standard “demografici”. Come se ci fosse stato un sottocomitato a Davos che avesse pianificato la scena dance anno dopo anno nei decenni precedenti.
Ovviamente, questa versione è parzialmente vera. La scena dance era dominata da un certo tipo di persone, sia sul palco che in studio.
E, nonostante quasi un decennio di “ingegneria sociale”, lo è ancora. La stragrande maggioranza (facilmente l’85%, probabilmente oltre il 90%) dei dj a livello globale, appartiene a un gruppo “elevato”. Le percentuali per i produttori sono ancora più alte.
Queste cifre si riflettono proprio nei commenti sotto il video di Richie su Instagram e nei post successivi. Osservando l’identità di quelle persone, è evidente che gli sforzi per diversificare la scena techno siano stati incredibilmente infruttuosi. Nonostante l’ascesa di headliner molto visibili ai festival, scelti più per la loro presenza sui social che per il loro impegno musicale, giustificati con l’idea che avrebbero ispirato una partecipazione più ampia, la composizione della scena musicale appare oggi quasi inesistente.
Ma ancora, perché nuovi partecipanti a una schiera denunciata come esclusiva e sfruttatrice dovrebbero unirsi a questa comunità in modo costruttivo? Per la stampa dance (che insieme alla frangia estremista su Twitter ha largamente propagato questa narrazione) fare finta di sorprendersi è pura manipolazione psicologica o semplice ingenuità.
La storia non raccontata di Aslice è che i migliori produttori non vengono più premiati dalle loro “partecipazioni” nelle tracklist dei dj set di fascia medio-bassa che, pur non vendendo molti biglietti, erano cruciali per la salute complessiva della musica. Il declino graduale, e sempre più precipitoso, dei piccoli club – veri e propri incubatori di nuovi talenti (dj e produttori) – ha rivelato la fragilità del sistema. Il sempre più crescente aumento del prezzo degli eventi, persino nei locali più piccoli, ha esposto i dj alla dura realtà della loro reale capacità di garantire un ritorno finanziario ai promoter.
La pressione esercitata a partire dal 2016 sui promoter per garantire diversità nei lineup era così in contrasto con la reale disponibilità di performer da risultare ridicola. Questo ha portato all’esclusione della fascia media di Dj/produttori, sostituiti da una piccola cerchia che soddisfaceva certi requisiti, inizialmente disponibili per compensi bassi. Il budget risparmiato è stato poi monopolizzato dagli headliner.
Parallelamente, le critiche provenienti dalle nuove leve sono state silenziate, in particolare rispetto alla loro produzione musicale. La ghost production è diffusissima nella musica dance, e lo è stata fin dall’inizio. Molti dj leggendari non si sono nemmeno mai avvicinati all’ideale romantico di un Aphex Twin che assembra sintetizzatori nella buio della sua cameretta.
Ma accusare la chiara evidenza di ghost production dei nuovi arrivati è stato visto come ulteriore prova di tossicità nella scena. Che fosse manipolazione intenzionale o semplice ignoranza, l’effetto è stato elevare ancor più in alto persone la cui intenzione era, nel migliore dei casi, pura vanità e, nel peggiore, il sabotaggio attivo di una cultura che, seppur con grandi difetti dalla sua parte, aveva sempre generato innovazioni musicali.
Cosa rimane? La conseguenza più evidente è la rottura del legame tra produrre musica e suonare nei club.
Si dice spesso: “Non tutti i bravi produttori sono bravi dj, e alcuni dei migliori djs non producono musica”.
La seconda parte di questa frase è qualcosa che accade di raro. Pochissimi top djs non producono musica, degli edit o versioni esclusive per i loro dj set.
Cosa succede, invece, quando produci ottima musica ma questa non ti fa più suonare nei club? Meno buona musica verrà prodotta in futuro. E sempre meno persone ci proveranno. I produttori di talento stanno lasciando la scena per tornare a lavori quotidiani. La loro musica non verrà mai suonata.
Alla fine, cosa ci facciamo ancora qui? È ancora una scena che parte dalla musica? O solo una realtà dedicata ai parties? O ancora un esperimento sociale?
Per gran parte della sua storia, dal 1987 a oggi, era una combinazione delle prime due cose. Negli ultimi dieci anni, sembra essere diventata un mix della seconda e della terza.
Magari a qualcuno va bene così. Magari si illudono che la musica sia vitale come lo è sempre stata. O forse pensano che, sistemando il contesto sociale, la musica si prenderà cura di sé stessa.
Buona fortuna.
Puoi rileggere a questo link il post di Scuba in lingua originale su Facebook.